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Digita una parola chiave, ad esempio, "causa di servizio"

Ex-militare di leva riconosciuto Vittima del dovere 50 anni dopo l’incidente che lo rese invalido

Questa storia ha un lieto fine, conviene specificarlo subito, ma ci sono voluti 7 lunghi anni e 3 gradi di giudizio per scriverlo. Soprattutto, c’è voluta la perseveranza di un uomo che aveva in una mano il testo di legge e nell’altra le continue opposizioni di un’Amministrazione che quella legge la travisava, col solo fine strumentale di salvaguardare i propri bilanci.

Il lieto fine ha una data: il 15 gennaio 2020. L’ordinanza della Cassazione respinge il ricorso del Ministero della Difesa avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 2017 e conferma ciò che già era stato deliberato fin dal primo grado di giudizio 3 anni prima. Anni, come si diceva.

Il fuoco amico

Perché questa storia inizia nel 1973. Il suo protagonista è uno dei tanti ragazzi partiti dal sud e spediti a migliaia di chilometri di distanza per la leva obbligatoria. A marzo di quell’anno, il giovane ha già 9 mesi di servizio alle spalle, quasi tutti svolti nel 3° Gruppo Artiglieria di Bolzano. Non è più una recluta, una “burba” o una “spina” come si dice in gergo: è ormai esperto ed è tra quelli che vengono incaricati di lasciare la caserma per prestare servizio di sorveglianza armata continuativa a un’infrastruttura militare, una polveriera per l’esattezza.

Ancora 3 mesi e il ragazzo sarebbe tornato a casa per cominciare la propria vita da adulto. Ancora pochi minuti e il suo turno settimanale di sorveglianza sarebbe terminato. Già, perché il caso a volte si diverte a metterci lo zampino. Alle 10 di sera del 6 marzo del ’73, proprio mentre la sua squadra sta effettuando il passaggio di consegne alla “muta” subentrante, dal fucile di un commilitone parte un colpo accidentale. Il protagonista di questa storia è tale ed è ancora in vita perché il colpo gli attraversa il cranio senza ucciderlo. Si infila nella narice sinistra ed esce dall’orecchio destro, lasciandogli però in eredità un’emiparesi facciale e una parziale sordità, riconosciute poi in un’invalidità per causa di servizio del 90% con diritto alla pensione privilegiata ordinaria di seconda categoria a vita.

Ma, come si diceva poco sopra, c’è una legge, la 266 del 2005, che all’articolo 1, comma 563, definisce Vittime del dovere coloro che siano deceduti o siano rimasti invalidi in attività di servizio in alcune specifiche attività elencate tra le quali, alla lettera c), “la vigilanza ad infrastrutture civili e militari”.

Basta questa rapida occhiata al testo di riferimento per concludere che i requisiti ci sono tutti: il ragazzo era in servizio ed è rimasto invalido mentre svolgeva proprio l’attività di sorveglianza contemplata nella norma. Così, nel 2013, l’ex-militare richiede i benefici previsti cui pare pacifico abbia diritto.

E un’amministrazione “poco amichevole”

Ma il Ministero della Difesa non è d’accordo. Di pacifico, anzi, non c’è nulla e serviranno anni di lavoro dello Studio Guerra per arrivare al lieto fine col quale abbiamo iniziato questo articolo. 

L’amministrazione, infatti, eccepisce che la casualità, l’accidentalità o l’imprudenza alla base di un evento come questo siano discriminanti sufficienti ad escludere la sussistenza dei requisiti, poiché non vi sarebbe “la concretizzazione del rischio” tipico connesso all’attività di sorveglianza. Ed è, lasciatecelo dire, un’eccezione che non sta in piedi. 

Il Legislatore, occorre ricordarlo ancora una volta, alle lettere da a) a f) del comma 563 ha individuato sei contesti operativi già di per sé più a rischio rispetto agli ordinari servizi d’istituto.
L’invalidità o il decesso derivati in conseguenza dei servizi svolti in uno di questi contesti dovrebbero perciò dare titolo allo status di Vittima del dovere in modo automatico. Questa era la ratio della norma e questo era l’intento del Compilatore.
Inoltre, la prova del “maggior rischio” evocato dal Ministero rimanda al successivo comma della stessa legge, il 564, quello relativo agli equiparati a Vittime del dovere e non ha alcun rilievo in questa fattispecie per la quale è sufficiente ed esaustivo, come già detto, dimostrare il contesto d’impiego in cui è avvenuto l’evento.

Contraddittorio, non contrapposizione a priori

Il ruolo dell’Amministrazione, sia chiaro, non deve essere passivo. Anzi, è sano e funzionale, in un sistema nel quale tutti gli ingranaggi funzionino correttamente, che il Ministero appuri, attraverso organi di consulenza, come le Commissioni Mediche e il Comitato di Verifica per le Cause di Servizio, che ogni domanda sia fondata. Il contraddittorio garantisce la salvaguardia del diritto collettivo e scongiura lo spreco di denaro pubblico.

Tuttavia, quando queste condizioni siano evidenti e inoppugnabili come in questo caso, quando gli avvocati siano costretti a ripetere le stesse motivazioni di diritto con esiti sempre favorevoli nei 3 gradi di giudizio, che senso ha una contrapposizione strumentale e pervicace? 
Più che un lieto fine era l’unico finale giusto, almeno a termine di legge, e 7 anni sono davvero troppi per leggerlo finalmente nero su bianco.